Impairment e Empowerment


Oltre alla pronuncia somigliante queste due parole tormentone hanno in comune il fatto di porre ogni volta i traduttori di fronte al dilemma se trovare a tutti i costi un traducente o se lasciare il termine in inglese.

Iniziamo da impairment. In inglese impairment significa "danno", "perdita"; nel linguaggio dell'audit si è specializzato nel senso di "perdita di valore" degli attivi in bilancio. Si fa riferimento all'impairment test nei Principi contabili dell'IAS (IAS 36). Come spesso succede nella lingua, una parola del linguaggio comune ha finito quindi per assumere un significato specializzato in una o più discipline. L'impairment test è infatti anche il test volto ad accertare l'eventuale deficit uditivo di un soggetto.

In italiano, impairment viene usato nel campo dell'audit. Si veda ad es. la "Guida all'applicazione dell'impairment test dello IAS 36" pubblicata nel febbraio 2006 dalla Commissione per i principi contabili. Si parla anche di indicatori di impairment (si vedano le slide del corso tenuto alla Sapienza nell'anno accademico 2012-2013 dalla Prof.ssa Maria Teresa Bianchi). Una soluzione traduttiva italiana che inseguisse l'impossibile sogno di sottrarsi al dominio dell'inglese nel campo della revisione contabile, nata in terra britannica, rischierebbe solo di creare fraintendimenti.

Stesso discorso per empowerment, termine del quale pur esistono dei traducenti più o meno consolidati, come "titolarizzazione" e "responsabilizzazione". Se quest'ultimo traducente può andar bene in determinati casi, ad es. nella sfera aziendale (ad es. in "La responsabilizzazione dei dipendenti è una risorsa importante nelle organizzazioni"; s.v. Empowerment in Wikipedia), la soluzione "titolarizzazione", pur utilizzata in ambito euroistituzionale, appare una forzatura. Una ricerca su Google limitata ai siti italiani rivela difatti poche occorrenze di "titolarizzazione", e quasi tutte in documenti non riferibili a situazioni italiane, dunque probabilmente tradotti. Se invece si effettua la ricerca di empowerment (sempre limitatamente ai siti italiani) incrociandola con "genere" - che è il settore in cui empowerment più frequentemente ricorre - le occorrenze trovate sono decine di migliaia. Tutto questo trova conferma in un documento del Ministero degli Affari esteri dal titolo "Linee per guida per uguaglianza di genere e empowerment delle donne", un lungo testo di 33 pagine in cui non compaiono mai né "titolarizzazione" né tanto meno "responsabilizzazione" (che nel contesto dell'uguaglianza di genere suonerebbe alquanto curioso). Altri ambiti tipici d'uso di empowerment in italiano sono quello della disabilità (si veda il seminario "L'empowerment delle persone con disabilità" tenuto il 18 settembre 2015 e organizzato dalla Rete Italiana Disabilità e Sviluppo (RIDS) e quello della cooperazione allo sviluppo (v. Gianni Vaggi, "La cooperazione come empowerment e dialogo" in Cani V. - Parigi G.B., Le radici della cooperazione internazionale.

Tradurre “facilities”


L'inglese, che si caratterizza solitamente per la sua precisione lessicale e terminologica, non manca di parole altamente polisemiche che non trovano in italiano traducenti esattamente sovrapponibili.

Uno di questi è facilities che può significare a seconda dei casi impianti, strutture, servizi (non esclusi gli igienici…) e così via.

A volte il traducente momentaneamente prescelto non ci soddisfa perché non copre tutti i sensi del termine nello specifico contesto. In questi casi perché dunque non tradurre "servizi e strutture"?

Collocazioni e creatività linguistica


Lo scrittore francese Jacques LaCarrière ha detto che si ha poesia quando due parole si incontrano per la prima volta. Proprio l'opposto di quanto suggerisce il DCL, che riporta invece le combinazioni di parole di uso frequente e consolidato.

Ma proprio in quanto illustra la parola nei suoi possibili contesti e scenari (oggi si direbbe frames) un dizionario delle collocazioni potrebbe a volte offrire spunti anche a un bravo onomaturgo (per usare l'espressione di Migliorini) stimolandone la creatività in modo più o meno diretto.

Viggiano

Faccio un esempio concreto. Mi viene in mente uno dei versi più famosi della poesia italiana: "e il naufragar m'è dolce in questo mare". Sotto la voce "naufragare" non si troverà sicuramente nel DCL l'avverbio dolcemente (*naufragò dolcemente nel mare in tempesta). Nessun "dolce naufragare" potrà mai essere trovato consultando un dizionario di collocazioni.

Tuttavia, nominalizzando l'espressione otterremo misero naufragio, un'espressione che troviamo già in un poema maccheronico del '700 (I Cantici di Fidenzio). Sul fatto che l'espressione misero naufragio costituisca una collocazione nel senso linguistico del termine non ci sono dubbi. Una delle caratteristiche delle collocazioni è infatti che il collocato (in questo caso "misero") assume nell'espressione un significato figurato spesso con una speciale connotazione: nessuno dei significati figurati di solito assunti da questo aggettivo (secondo GRADIT: gracile; di scarso valore; spregevole) danno infatti conto della particolare sfumatura assunta dall'aggettivo in questa espressione; e di fatto la vediamo usata in sintagmi come un progetto, un matrimonio sfociato in un misero naufragio; un tentativo naufragato miseramente. Notiamo pure che questa combinazione è possibile solo se anche "naufragio" viene usato metaforicamente (ossia applicando implicitamente la figura retorica della similitudine).

Il fatto che, per la loro natura di espressioni, le collocazioni utilizzino appieno gli espedienti della retorica ci porta avanti di un passo verso la creatività, senza ovviamente pretendere di insegnarla.

Responsabilità e Rendicontabilità


Nel Glossario pubblicato sul sito VIPST del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell'Università di Pisa, leggo la seguente definizione (1)

"Rendicontabilità

Obbligo di dimostrare che il lavoro è stato svolto in conformità alle regole e agli standard concordati o di riferire in maniera chiara e dettagliata in merito ai risultati di attività svolte in relazione a funzioni e/o piani assegnati. Quanto sopra potrebbe richiedere un’accurata dimostrazione, difendibile anche in sede legale, che il lavoro è stato realizzato secondo i termini contrattuali.

Nota:
per le attività relative allo sviluppo, trasparenza può significare l’obbligo dei partner di operare in base a responsabilità, ruoli e compiti chiaramente definiti, spesso in relazione con una gestione oculata delle risorse disponibili.
Per i valutatori, il termine indica la responsabilità di fornire rapporti di monitoraggio e valutazioni sulle prestazioni rese che siano accurati, veritieri e credibili.
Per i responsabili delle politiche e per i dirigenti del settore pubblico, rendicontabilità significa il dovere di riferire sul proprio operato a cittadini e contribuenti."

Tutti riconosceranno immediatamente la quasi equivalenza con l'inglese accountability. Il termine italiano sembrerebbe coprire sia l'aspetto del dover rendere conto a qualcuno con idonea documentazione sia quello più generale della responsabilità in capo a chi deve rispondere del proprio operato.

Ma come la mettiamo con rendicontabile? E' valida l'equazione accountability: rendicontabilità = accountable: rendicontabile*? Oppure, per l'aggettivo, dovremo usare sempre responsabile?

Il suffisso –bile (cfr. Gradit s.v.) forma aggettivi deverbali come cantabile, credibile, deformabile, o denominali come camionabile, ciclabile, rotabile. Si tratta in tutti gli esempi citati dal Gradit di aggettivi che esprimono la capacità di qc. o di qcs, di subire gli effetti o essere il soggetto passivo dell'azione espressa dal verbo o, nel caso dei nomi, dell'azione che è loro tipica (camionabile= percorribile da un camion ecc.).

Lo stesso non può però dirsi per responsabile, che risale a un francese responsable, a sua volta derivato dal latino respondēre) e che indica invece la possibilità di compiere l'azione espressa dal verbo da cui etimologicamente deriva (responsabile=che è tenuto a rispondere o è consapevole di dover rispondere del proprio comportamento o operato).

Un esempio a cavallo tra i due casi è solvibile che il Gradit indica come derivato di solvere (termine letterario attestato av. 1294) e in cui il suffisso -bile può assumere sia il significato passivo (che può essere pagato, ad es. debito solvibile) che il significato attivo (che è in grado di far fronte ai propri debiti, ad es. persona solvibile).

Sembrerebbe si possa concludere che per il suffisso –bile la possibilità di esprimere, riferito a una persona., il significato attivo di "che può fare (o è tenuto a fare)" l'azione espressa dal verbo sia legata alla trasparenza etimologica della radice verbale, come proverebbe il fatto che ad es. l'antico solvere non è avvertito dal parlante comune come l'antecedente verbale della formazione dell'aggettivo.

Sembrerebbe così lecito concludere che rendicontabile, in quanto chiaramente derivabile da rendicontare (documentare con un rendiconto) non possa (o non possa ancora) essere utilizzato per significare che qualcuno è tenuto a rispondere, documenti alla mano, del proprio operato, e che nel tradurre l'inglese accountable occorrerà ancora usare il buon vecchio responsabile nella speranza che il co-testo e il contesto ci possano aiutare a sciogliere eventuali ambiguità.

Sono graditi i commenti.

(1) Devo la segnalazione al mio collega Nino Tilotta

Safety e Security


Nel corpus legislativo dell'Unione europea i due termini vengono di solito tradotti con l'unico termine "sicurezza". In realtà una distinzione c'è (e importante).

Come ci spiega l'ing. Mario Vaccaro in una nota dell'ottobre 2005 - e su cui il seguito di questo testo è basato - SAFETY si riferisce ai rischi imprenditoriali mentre SECURITY a quelli non imprenditoriali. Cosa significa.

I rischi imprenditoriali sono quelli di cui l'imprenditore è il primo responsabile, ossia:
Salvaguardia della salute e della sicurezza dei lavoratori dell'impresa
Impatto ambientale dell'impresa sul mondo esterno
Impatto sociale dell'impresa sul mondo esterno

In relazione a tali rischi la SAFETY comporta l'obbligo di garantire un livello di "sicurezza socialmente accettabile" – così come definita da una sentenza della Corte Costituzionale – all'interno e all'esterno dell'impresa.

Notiamo qui incidentalmente che la Corte Costituzionale usa il termine "sicurezza" per Safety, avallando implicitamente la validità della traduzione dei due termini inglesi con un unico termine italiano.

I rischi non imprenditoriali sono i rischi originati sull'impresa dal mondo esterno (o talvolta dall'interno dell'impresa) e comprendono:

A) Rischi naturali (terremoti, maremoti, uragani, inondazioni ecc.), rischi ambientali (inquinamento, epidemie), rischi di origine tecnica (black out ecc.)

B) Atti di danneggiamento (terroristi, vandalici ecc.)

C) Atti di danneggiamento indiretto (sfruttamento improprio di marchi, virus informatici, ecc.)

La protezione da tali rischi rimanda alla SECURITY
Per la traduzione si dovrà forse valutare caso per caso, in base alla rilevanza delle distinzione nel contesto specifico, se unificare i due termini con "sicurezza" oppure distinguere con "protezione e sicurezza" o "incolumità e sicurezza".

1http://www.economisti.info/public/280206121621.pdf.
2 ibidem.

Tradurre “Policy”


Più che un falso amico il termine policy può essere definito un "nemico del traduttore". La varietà dei suoi significati a seconda del suo status grammaticale (nome o modificatore aggettivale preposto al nome) costringono il traduttore a reperire ogni volta soluzioni diverse che vedono ad es. policies tradotto correttamente con "politiche" e il sintagma policy measures tradotto, meno correttamente con "misure politiche" oppure, questa volta rendendo maggiore giustizia all'originale, "misure programmatiche/strategiche".

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Suo o proprio?


L'uso degli aggettivi possessivi "suo" e "proprio" è spesso causa di incertezze. Fino a che punto sono intercambiabili? La scelta è condizionata da mere ragioni eufoniche o c'è dell'altro?

Per dirimere la questione ci viene in soccorso il linguista Luca Serianni. Ci dice Serianni che

"proprio può sostituire l'aggettivo possessivo di 3a e 6a persona, a condizione che si riferisca al soggetto della frase" ma che "è sempre consigliable usare proprio invece di suo quando potrebbero sorgere equivoci: 'Mario vide Carlo con la propria moglie' (dicendo 'vide Carlo con sua moglie' si penserebbe piuttosto alla moglie di Carlo.") (Luca Serianni, Grammatica Italiana, Utet, 1988, p. 230)

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Dizionari affidabili?


Umberto Eco ci informa che "leggendo le traduzioni italiane dei romanzi gialli americani si trova sempre un detective che dice al tassista di portarlo alla Città Alta o alla Città Bassa. Evidentemente il testo originale stava dicendo Uptown e Downtown, ma per una sorta di patto scellerato i traduttori si sono tacitamente accordati e usano queste bizzarre espressioni – così che i lettori ingenui sono convinti che ogni città americana sia come Bergamo, Budapest o Tbilisi (…)".

Ma incide veramente la comunicazione fra i traduttori sul prodotto finito? Si può parlare di una "cultura di categoria"? Considerando che gli scrittori di romanzi gialli cui Eco fa riferimento scrivevano in un'epoca in cui la nozione di "turismo congressuale" probabilmente non esisteva neanche, resterebbe la possibilità che i traduttori di thriller abbiano annoverato tra le proprie strategie di apprendimento professionale la lettura parallela di "modelli" dello stesso genere testuale, creando quindi fra loro una sorta di comunicazione virtuale. Possibile, ma non si può neanche escludere la gemmazione spontanea e ripetuta della stessa soluzione traduttiva, indotta da un fondamentale misunderstanding dell'originale. Se si considerano le tariffe a cui lavorano i traduttori, sembra infatti poco praticabile la raccomandazione di Eco secondo cui "il traduttore dovrebbe lavorare tenendo sott'occhio una pianta e una guida della città americana in questione".

E se tutto fosse dovuto semplicemte all'uso di un particolare dizionario? Il dizionario inglese-italiano più vecchio che sono riuscito a procurarmi è il Sansoni, prima edizione del 1970, dove s.v. uptown nella sezione III della voce troviamo "quartieri alti (o residenziali) della città. Che non sia stata la "altezza" dei quartieri a provocare l'equivoco?

Umberto Eco (2003), Dire quasi la stessa cosa, Bompiani, p. 193
Ibidem, 194

Google Traduttore o Traduttore Google?


Tutti abbiamo avuto prima o poi a che fare con questo programma di Machine Translation, magari per tradurre rapidamente una breve frase in inglese o per comprendere il senso generale di una pagina web in una lingua esotica.

Voglio però soffermarmi sull'aspetto traduttivo del nome della potente risorsa Google: perché Google traduttore e non Traduttore Google, che sembrerebbe a prima vista più naturale? È una scelta traduttiva deliberata o semplicemente una traduzione poco adeguata?

Propenderei di primo acchito per l'ipotesi della involontarietà della traduzione. Mi sembra un ulteriore caso di discourse transfer, ossia la tendenza delle traduzioni a ricalcare la struttura grammaticale, sintattica e pragmatica della lingua originale. Il discourse transfer è uno dei numerosi universali traduttivi che sono stati identificati dagli studiosi di traduttologia. Nulla di metafisico. Questi "universali" non sono altro che i tratti caratteristici mostrati da tutti i testi tradotti, a prescindere dalla lingua di partenza. Gli universali traduttivi sono stati proposti all'attenzione degli studiosi da Gideon Toury e dalla sua Scuola di Tel Aviv negli anni '80, per essere poi ripresi e diffusi da M. Baker e S. Laviosa- Braithwait negli anni '90.

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Quale “approccio” nel tradurre



Nell'attività di traduzione si tende inconsapevolemente ad analizzarne la frase nei suoi costituenti: parole e sintagmi, che tendiano spesso a tradurre "in automatico" adottando il traducente più frequente.

Tendiamo ad esempio a tradurre an attractive girl con una ragazza attraente (e non carina), "sedotti" (è il caso di dirlo) dalla comune origine etimologica. Nel caso di approach invece tendiamo invece a riprodurre pedissequamente l'originale con approccio, ormai accettato nella nostra lingua, oppure traduciamo con impostazione (che è uno dei due modi in cui si è soliti rendere questo termine).

Fin qui nulla da ridire, perché sia "approccio" che "impostazione" in italiano vanno bene (si potrà semmai vedere nel primo traducente un calco semantico ormai naturalizzato e nel secondo un tentativo di reagire al primo...). Una frase come "programmi di formazione con un approccio più operativo" è assolutamente accettabile.

Ma proviamo ora a inserire questa stessa frase in un traduttore automatico web (MyMemory) nella direzione italiano-inglese. Il risultato è: training programs with a more operational approach, dove la traduzione di approach è corretta e quella di operational perfettibile (meglio, come suggerisce il mio collega Paul: operations-based). Se ora decido di inserire la stessa frase con una modifica che non altera in nulla il significato: programmi di formazione con un taglio più operativo, trovo: training programs with a more operative […]. In altre parole "taglio" non viene riconosciuto come pertinente e non viene tradotto e operativo viene tradotto con operative, che è del tutto fuori luogo.

Morale: più stereotipia, più probabilità per noi traduttori di finire preda della traduzione automatica statistica…